
di Matteo Brogi
Caccia con arco e armi ad avancarica: un contributo alla sostenibilità
La caccia con l'arco e con le armi a polvere nera è l'estrema frontiera con cui si confronta chi vuole vivere la pratica venatoria in maniera immersiva. Richiede di conoscere in maniera profonda l'etologia della fauna, l'ambiente, le leggi della balistica e impone un confronto leale con il selvatico
Lo sviluppo tecnologico che ha interessato il settore armiero a partire dalla seconda metà del diciannovesimo secolo ha ampliato a dismisura le capacità offensive degli strumenti che abbiamo tra le mani. Al tempo stesso ha spazzato via molte remore, affidando al cacciatore un senso di onnipotenza che ha travolto alcune delle regole etiche che regolavano in precedenza il prelievo venatorio e, come effetto collaterale, mettendo a rischio la fauna selvatica.

Una carabina moderna camerata in un calibro prestante e abbinata a un'ottica da puntamento, se non gestita con un approccio responsabile e ispirato a una rigorosa deontologia, diventa uno strumento che non dà scampo e sposta il limite teorico d'ingaggio del selvatico sempre un po' più avanti. Fatti salvi i casi particolari (selvatici particolarmente elusivi che vivono in habitat poveri di coperture) la cosiddetta caccia a lunga distanza, oggi così popolare, rischia di diventare una sorta di tiro a segno dove, anziché sparare a un bersaglio di carta, si punta al prelievo di un essere vivente. Che può "cadere sull'ombra" oppure incassare malamente il colpo e morire a distanza di tempo e a costo di grandi sofferenze, magari per un piazzamento del proiettile poco consono o per un'energia residuale dello stesso non sufficiente a creare gli effetti di balistica terminali necessari. Questo perché, in un tiro a lunga distanza, le capacità personali, il decadimento delle performance balistiche e le variabili ambientali impediscono un esito ragionevolmente certo.
Contro il logorio della vita moderna...
Come reazione a questo mondo iper-tecnologico dove a contare è sempre il risultato, negli ultimi decenni si è rafforzato il movimento dei cacciatori-arcieri e di coloro che utilizzano armi ad avancarica. Strumenti tradizionali che hanno prestazioni balistiche molto contenute rispetto a quelle di una moderna arma a retrocarica e tolgono forza allo strumento (il predominio tecnologico del predatore) per rimettere la capacità di successo all'abilità del cacciatore. Armi che riducono il divario tra la preda e il predatore, che deve ingegnarsi per vincere i sensi ed eludere i meccanismi di difesa del selvatico. Così da far tornare l'uomo, il cacciatore, centrale nell'attività venatoria.
Questi concetti sono magnificamente espressi nella pluricitata opera di José Ortega y Gasset, che nella sua introduzione al saggio Veinte años de caza mayor dell'amico Eduardo de Yebes, già nel 1943 distingue tra cacciatore e "persecutore", attributo che si può facilmente affibbiare a chi, grazie alla soverchiante superiorità tecnologica e alla sproporzione dei mezzi, non lascia al selvatico quella possibilità di fuga che è essenziale nel definire un'attività venatoria sostenibile. Lo scrittore spagnolo scrisse il suo pamphlet mentre infuriava il secondo conflitto mondiale che, proprio per il prevalere della tecnica, annientava il confronto cavalleresco una volta insito nel contesto bellico e produceva milioni di morti (si calcolano oltre 24 milioni di caduti militari e quasi 44 milioni di vittime civili su una popolazione che non raggiungeva i 2 miliardi di persone).
A caccia con l'arco
L'arco è un mezzo di caccia consentito dalla legge 157/92 (articolo 13, comma 2). Eppure, perché sia possibile utilizzarlo nel prelievo di selezione, è necessaria una espressa indicazione nel calendario venatorio regionale, così che in Italia ne è consentito l'impiego in alcune Regioni e non in altre. Fece da apripista la Toscana, con la Provincia di Siena, che nel 2006 ne sdoganò l'impiego. Seguirono altre realtà tra cui, nel 2024, la Liguria. Il provvedimento scatenò le ire degli animalisti, che arrivarono a sostenere che «chi, negli anni Venti del XXI secolo, rilancia per legge la caccia con arco e frecce, che produce inutili e gravi sofferenze per gli animali, merita l'appellativo di barbaro».

Per affrontare e sconfiggere il pregiudizio che aleggia sugli arcieri, anche da parte di alcuni cacciatori, bisogna fare un passo indietro e osservare come i pareri favorevoli all'impiego dell'arco come mezzo venatorio siano solidi: nel 2009 Silvano Toso, in un parere dell'Ispra di cui all'epoca era dirigente, scriveva che «L'esperienza maturata negli ultimi decenni in molti paesi ha dimostrato che l'arco, se utilizzato correttamente, consente l'abbattimento degli ungulati in maniera adeguata agli standard tecnici ed etici che caratterizzano l'abbattimento con un'arma da fuoco a canna rigata. Inoltre, poiché la gittata utile dell'arco in termini venatori è molto piccola (massimo 30 metri) il riconoscimento preventivo della classe di sesso e di età dell'animale da prelevare, presupposto di base della caccia selettiva, risulta facilitato».
Successivi pareri a firma di Piero Genovesi, nel 2014 e 2016, aggiunsero che «L'arco [può] in generale essere annoverato tra i mezzi utilizzabili per la realizzazione di interventi di controllo del cinghiale, sia in aree venabili sia in aree protette» in quanto permette una maggior certezza nell'identificazione dell'animale soggetto al prelievo, non comporta rischi di effetti indesiderati su altre componenti ambientali, offre un'adeguata sicurezza per gli operatori, può favorire il controllo in zone caratterizzate da particolare criticità.
Un divieto illegittimo?
Ciò premesso, Marco Olivi, professore associato di Diritto amministrativo e Coordinatore scientifico del Master in Amministrazione e gestione della fauna selvatica a Cà Foscari, in un'intervista che mi rilasciò alcuni anni fa sostenne «non solo che l'uso dell'arco per la caccia sia legittimo ma […] che sia illegittimo vietarlo. La legge regionale che tocca la tutela dell'ambiente è legittima solo quando alza il livello di tutela ambientale, altrimenti è illegittima. Allora il punto è questo: il divieto dell'uso dell'arco alza il livello di tutela ambientale o lo abbassa?»
Negli Stati Uniti hanno dato una risposta pragmatica al quesito e i dati più recenti a disposizione (2022) dicono che l'arco è considerato il mezzo più ecologico anche dagli animalisti, che apprezzano le maggiori abilità che impone al cacciatore per effettuare il prelievo e le difficoltà a esso connesse, che riducono inevitabilmente l'impatto sull'ambiente. Per farla breve, su un totale di circa 14,4 milioni di cacciatori (il 6% della popolazione), secondo la Archery Trade Association gli arcieri americani sono 3,7 milioni. Facilitati da calendari che anticipano o estendono la durata della stagione venatoria; in Arizona, per esempio, la stagione generale di caccia ai cervidi si estende dal 22 ottobre al 31 dicembre, anticipata da una finestra dedicata ai soli arcieri cacciatori (20 agosto – 9 settembre). Ne consegue che il 62% della popolazione dello Stato utilizza l'arco a caccia, anche se non in via esclusiva.
A caccia con l'avancarica
Restando negli Stati Uniti, i dati forniti dalla National Deer Association illustrano che anche la caccia ad avancarica gode di ottima salute grazie a circa 1,4 milioni di praticanti, anche in questo caso non necessariamente in via esclusiva. Se la caccia con l'arco esalta la capacità di avvicinamento al selvatico, quindi la necessità di conoscere la sua etologia e il territorio in cui vive, l'avancarica appassiona coloro che si lasciano affascinare dall'amore per il bel gesto, dalla ponderatezza che ispira l'azione (una sorta di approccio slow contro quello fast che è la vera schiavitù dei nostri tempi), dall'aura di romanticismo che restituisce l'impiego di armi legate a un periodo storico per certi versi eroico. Ma questo, evidentemente, non basta.

Per poter essere praticata ancora oggi, la caccia con armi a polvere nera deve rispondere a due esigenze fondamentali che già nel corso del ventesimo secolo si sono imposte nel nostro sistema di valori: la sicurezza e l'eticità del prelievo, che deve essere pulito e senza inutili sofferenze per il selvatico. Cosa resa possibile dalle armi a polvere nera di moderna produzione e dalla disponibilità di propellenti (tradizionali o a base sintetica) e proiettili più efficienti.

Se nella caccia con l'arco le raccomandazioni Ispra suggeriscono distanze massime d'ingaggio di 15-20 metri con il ricurvo e 25-30 metri con il compound, nel caso della polvere nera non ci sono limitazioni legali e il tiro responsabile (da non confondere con il tiro utile) può arrivare al massimo a 150 metri, a patto di conoscere la specifica balistica e di avere una solida esperienza di tiro in poligono. Se affrontata con responsabilità e la corretta dose di conoscenze, quindi, anche la caccia ad avancarica impone un confronto molto leale con il selvatico. Le distanze devono essere necessariamente più brevi, facilitando anche in questo caso il riconoscimento del selvatico e incrementando la difficoltà del prelievo.

Senza voler sminuire la caccia con la carabina a retrocarica, che pratico regolarmente, posso dire con assoluta convinzione che cacciare con l'arco e con l'arma a polvere nera rappresenta un altro livello di caccia, un livello evoluto, che riduce il divario tra il predatore e la sua preda, dove non è bravo chi spara più lontano ma chi sa integrarsi nel modo migliore nell'ambiento che lo circonda.
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