Tra gli ungulati, il capriolo è quello che sta dimostrando una minore capacità di adattamento ai cambiamenti climatici
Tra gli ungulati, il capriolo è quello che sta dimostrando una minore capacità di adattamento ai cambiamenti climatici - © Andrea Dal Pian
Pubblicato il in Conservazione
di Matteo Brogi

I cambiamenti climatici e la caccia

Con ogni probabilità il 2022 sarà l'anno più caldo registrato a partire dall'elaborazione delle serie storiche meteo-climatiche. Una situazione drammatica che porta in primo piano anche le capacità di adattamento della fauna selvatica. Che non sempre si avvantaggia di inverni più miti e primavere anticipate. Il caso del capriolo e del cinghiale

Il mese di ottobre appena concluso è stato contrassegnato da temperature estreme, con valori anche di 8 gradi superiori alle medie stagionali. Il fenomeno è stato associato a un anticiclone nord africano che ha portato i suoi effetti su gran parte d'Europa. Insomma, il 2022 si candida a essere, oltre che estremamente siccitoso, l'anno più caldo dal 1800, da quando si registrano le serie storiche.

Che il fenomeno sia collegato al riscaldamento globale è presto per affermarlo con certezza: Serena Giacomin, fisica, climatologa e meteorologa, presidente di Italian climate network, ha dichiarato che

«Una configurazione meteorologica non è correlabile direttamente con il cambiamento climatico se non dopo più approfonditi studi di attribuzione. Ma, anche se questo singolo evento non può stabilire di per sé una tendenza, l'attuale anomalia si inserisce perfettamente nella tendenza climatica e nell'aumento della frequenza di ondate di caldo anche fuori stagione osservato negli ultimi anni».

Questa tavola indica l'incremento delle temperature medie nel corso degli ultimi 50 anni in tutto il globo terrestre
Questa tavola indica l'incremento delle temperature medie nel corso degli ultimi 50 anni in tutto il globo terrestre - © NASA Scientific visualization studio

La tendenza climatica attuale vede susseguirsi stagioni calde di maggior durata (con un aumento delle temperature medie e della frequenza di quelle estreme), un accorciamento della stagione della neve, un autunno tendenzialmente tardivo e una primavera anticipata. Un complesso di eventi che rendono quantomeno improbabile l'obiettivo di contenere il riscaldamento di 1,5 gradi rispetto al periodo pre-industriale su cui si è impegnato il G20 di Roma a ottobre 2021 (che prevede inoltre emissioni zero "entro o attorno" metà secolo). L'Ipcc (Intergovernmental panel on climate change, organismo scientifico dell'Onu sui cambiamenti climatici) ha confermato che si tratta di un obiettivo fuori portata ed è assai più probabile uno scenario di 2,7 gradi addirittura entro il 2030.

I cambiamenti climatici per gli ungulati

L'innalzamento della temperatura ha conseguenze significative sulle nostre abitudini e su quelle dei selvatici che insidiamo nel corso dell'attività venatoria. Sono numerosi gli studi che trattano questo aspetto per fornire una lettura della situazione attuale e un modello di riferimento quando si guarda in prospettiva al futuro. Ebbene, il fenomeno del cambiamento climatico (in particolare il riscaldamento globale) ha progressivamente anticipato l'inizio della primavera: negli ultimi decenni in Europa l'inizio della stagione è stato anticipato di 2,8 giorni e la fioritura delle principali essenze arboree di 3,3 giorni per decennio. Questo, in un contesto in cui la temperatura del globo è cresciuta di 0,9 gradi (dal 1901 al 2013). Le capacità di adattamento di molte specie animali sono state inevitabilmente messe alla prova e non tutte stanno avendo successo.

Gli ungulati tendono a far coincidere le nascite con il picco delle disponibilità alimentari in quanto l'ultima fase della gestazione e il successivo allattamento richiedono un impegno che può portare a raddoppiare il fabbisogno energetico delle madri. Ecco quindi la necessità di avere cibo abbondante e di qualità - disponibile agli inizi della ricrescita vegetativa; con la maturazione della vegetazione, il cibo tende a essere meno digeribile e nutriente. Vari studi sembrano dimostrare che il cervo sia in grado di minimizzare le differenze tra il picco della disponibilità delle risorse alimentari e quello delle nascite ma ci sono specie che faticano di più. La riproduzione, infatti, dipende dal fotoperiodo e non dai cambiamenti delle temperature.

Cambiamenti climatici: capriolo vs cinghiale

Il capriolo è un caso emblematico. Uno studio francese, compiuto censendo i piccoli nati durante un periodo piuttosto lungo (1985-2011), ha evidenziato come la specie non sia riuscita ad anticipare la stagione dei parti in proporzione all'anticipo della stagione propizia (la temperatura media dell'area di riferimento è cresciuta di 1,9° e la primavera è stata anticipata di 16,2 giorni). La minor disponibilità di risorse ha prodotto un rallentamento nella crescita dei piccoli e diminuito la loro sopravvivenza. L'incremento demografico è risultato scemare dal 23% (1985) al 6% (2011). Altri studi dimostrano invece che nel capriolo la capacità di sincronizzare il parto con la ricrescita vegetativa sia molto più efficace al variare dell'altitudine.

Altrove i risultati sono meno drammatici ma è innegabile che le variazioni climatiche comportino reazioni comportamentali (studiate per esempio nei camosci e negli stambecchi che, tendenzialmente, salgono di quota nelle stagioni più calde, opportunità negata al capriolo che necessita di ampie aree boscate).

Le variazioni climatiche comportano reazioni comportamentali: camosci e stambecchi tendono a salire di quota nelle stagioni più calde. In fotografia, un camoscio appenninico in abito estivo
Le variazioni climatiche comportano reazioni comportamentali: camosci e stambecchi tendono a salire di quota nelle stagioni più calde. In fotografia, un camoscio appenninico in abito estivo - © Stefania Lupo

Ma non solo: il peggioramento della qualità delle risorse alimentari e la rarefazione di piante sensibili al clima nonché i costi energetici imposti dalla termoregolazione influiscono sul peso corporeo, di adulti e piccoli, maschi e femmine. Già a metà Ottocento, si è dimostrato che all'incremento della massa corporea corrisponde una diminuzione della dispersione del calore: nei climi freddi, quindi, i selvatici tendono a raggiungere dimensioni più grandi. Un altro studio dimostra (grazie a ritrovamenti fossili) come, nel corso addirittura dei millenni, i bisonti americani abbiano perso circa 41 chilogrammi per ogni incremento di un grado della temperatura terrestre.

Una storia molto differente è quella del cinghiale, che negli ultimi 30 anni ha vissuto un periodo di grande espansione che l'ha portato a colonizzare zone e habitat nei quali era assente. Nel suo caso, i processi di riforestazione congiunti alla mitigazione degli inverni hanno influito positivamente sia sulla riproduzione sia sulla sopravvivenza dei piccoli.

Insomma, le conseguenze dei cambiamenti climatici sono significative e impattano su tutti gli aspetti della nostra vita e di quella degli animali con cui condividiamo gli spazi. E condizioneranno inevitabilmente anche il nostro modo di andare a caccia, che dovrà sempre più adeguarsi alla capacità di adattamento che le diverse specie mettono in atto. Flessibilità, quindi, è la parola d'ordine.

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