
di Giuliano Milana
La caccia non è guerra: risposta etica e culturale a Sofri
Giuliano Milana risponde ad Adriano Sofri che ha pesantemente criticato la caccia, liquidandola come un'attività crudele e superflua
Nel suo recente intervento su Il Foglio (Riflessione sulla caccia come hobby e sul gusto di uccidere, 24 maggio), Adriano Sofri paragona la caccia alla guerra, definendola una “licenza di uccidere” e liquidandola come un’attività crudele e superflua, alimentata dal “piacere di uccidere”. Un’affermazione che, oltre a ignorare la realtà normativa e scientifica della gestione faunistica in Italia, rischia di alimentare una retorica dannosa, lontana dai fatti.
La caccia in Italia non è un arbitrio né un atto individuale, ma un’attività rigorosamente regolata dalla legge 157/1992, recepita dalle Direttive europee “Uccelli” (2009/147/CE) e “Habitat” (92/43/CEE). Ogni prelievo venatorio è autorizzato solo su parere tecnico dell’ISPRA, l’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale, che valuta tempi, modalità e limiti per assicurare la compatibilità del prelievo con la conservazione delle popolazioni selvatiche.
Non si tratta, come Sofri insinua, di “bracconaggio legalizzato”. Anzi, il rispetto della legge distingue radicalmente la caccia legale e sostenibile dal bracconaggio, che resta un crimine da contrastare. La fauna selvatica è “patrimonio indisponibile dello Stato”, non “res nullius”: nessuno può appropriarsene arbitrariamente, né tantomeno farne oggetto di interpretazioni ideologiche. La caccia etica è un patto tra l’uomo e la terra. È la sua fedeltà a quel patto a renderlo non un predatore, ma un custode (Aldo Leopold, 1949).
Una risorsa rinnovabile, se ben gestita
Numerosi organismi internazionali, FAO, IUCN, European Federation for Hunting and Conservation (FACE), riconoscono che il prelievo venatorio, se correttamente pianificato, può contribuire alla conservazione delle specie e alla tutela degli habitat, offrendo anche benefici alle comunità locali.
Hunting, when properly regulated, can provide a powerful incentive for conservation and habitat protection, especially when local communities benefit from it (IUCN, 2016).
In Italia, ad esempio, la gestione faunistico-venatoria ha un ruolo attivo nel contenimento di specie problematiche (come il cinghiale), nel monitoraggio degli ecosistemi e nel presidio di aree rurali marginali, spesso abbandonate dall’agricoltura intensiva. Il cacciatore non è il nemico della natura, ma uno dei pochi rimasti ad abitarla con consapevolezza.
La selvaggina, una risorsa alimentare sostenibile
La selvaggina non è solo una risorsa simbolica. È una fonte alimentare sostenibile, priva di antibiotici e ormoni, ottenuta da animali liberi, nutriti naturalmente e non trasportati per migliaia di chilometri. In un momento in cui la sostenibilità delle nostre scelte alimentari è centrale, la carne di selvaggina rappresenta un’alternativa etica, sana e locale.
Uno studio pubblicato su Meat Science (Hoffman & Wiklund, 2006) ha dimostrato che le carni di animali selvatici sono più magre, più ricche di acidi grassi insaturi e con un impatto ambientale notevolmente inferiore rispetto a quelle da allevamento intensivo.
La carne di selvaggina ha benefici nutrizionali, proviene da animali allevati allo stato brado e comporta un impatto ambientale decisamente inferiore rispetto alla maggior parte degli allevamenti zootecnici (Hoffman & Wiklund, 2006).
Caccia come cultura e gestione
La caccia poi non è sport, né sadismo: è cultura, etica, gestione. L’idea che si cacci “per il piacere di uccidere” è una semplificazione offensiva. Studi scientifici (Manfredo et al., 1995) mostrano che i cacciatori moderni sono mossi da motivazioni complesse: connessione con la natura, tradizione, gestione della fauna, approvvigionamento etico. Ridurre tutto a un impulso crudele significa ignorare la realtà per piegarla a una narrazione ideologica. Cacciare non è solo uccidere. È avvicinarsi, osservare, capire, rispettare. Solo così il cacciatore diventa parte del paesaggio, non suo dominatore (Franco Zunino, 1998)
Il cacciatore autentico non cerca la morte dell’animale, ma un’esperienza di vita. Il momento in cui il colpo parte è il più triste, perché è la fine del miracolo della caccia (José Ortega y Gasset, 1942).
Uno studio pubblicato su Nature Sustainability ha dimostrato che la caccia, quando inserita in un contesto etico, regolamentato e responsabile, può favorire la cura ambientale (stewardship), rafforzando il legame tra le persone e gli ecosistemi in cui vivono.
Recreational killing of wild animals can, under certain conditions, foster environmental stewardship (Shephard et al., 2019).
La caccia non è uno “sport”, né una forma di dominio virile. È un’attività che richiede formazione, responsabilità e conoscenza ecologica, svolta sotto il controllo dello Stato, con limiti stringenti, verifiche, sanzioni. È parte integrante della conservazione attiva della biodiversità, come dimostrano le collaborazioni tra cacciatori, biologi, enti pubblici e università in progetti di monitoraggio e tutela.
Paragonare la caccia alla guerra è non solo inaccettabile dal punto di vista logico e morale, ma anche gravemente disinformativo. Chi oggi difende la caccia sostenibile non difende un “passatempo”, ma una forma concreta di gestione del territorio, una risorsa alimentare locale e rinnovabile, una tradizione profondamente radicata nel rispetto delle leggi, dell’ambiente e delle specie selvatiche.
La caccia in Italia
È parzialmente vero affermare poi che l’opinione pubblica italiana sia tendenzialmente contraria alla caccia. I sondaggi degli ultimi anni mostrano che una parte significativa della popolazione, soprattutto urbana e lontana dal mondo rurale, ha un atteggiamento critico, ma non necessariamente ostile in senso assoluto. In uno studio Eurispes del 2019, oltre il 60% degli italiani si dichiarava contrario alla caccia in generale, ma la percentuale di favorevoli cresceva sensibilmente quando si parlava di contenimento di fauna invasiva o sovrannumeraria. È più corretto dire che la caccia soffre in Italia di una narrazione prevalentemente negativa e ideologizzata, alimentata dalla disinformazione e dall’assenza di voci tecniche nel dibattito pubblico.
Sofri accenna anche al disegno di legge promosso dal ministro Lollobrigida, citando Tozzi e discutendo ipotesi e proposte. Sebbene se ne sappia ancora poco, è auspicabile che questioni così complesse, che toccano equilibri ecologici, scelte gestionali e valori culturali, siano affidate a tecnici competenti e non usate, come troppo spesso accade, per alimentare una campagna elettorale permanente e trasversale.
Un confronto inquinato dall'ideologia
Eppure, nel dibattito pubblico sulla fauna e sulla conservazione, si dà sistematicamente voce a personaggi mediatici, opinionisti, attivisti, spesso privi di competenza tecnico-scientifica, mentre si esclude chi studia e lavora sul campo: zoologi, ecologi, biologi. Proprio coloro che potrebbero parlare con dati alla mano, offrendo valutazioni fondate e soluzioni concrete. Il risultato è una discussione distorta, inquinata da ideologia, che nuoce proprio alla tutela della biodiversità che tutti, in teoria, dicono di voler proteggere.
Chi denigra la caccia con leggerezza, rischia di fare danni molto più gravi del semplice errore: rischia di oscurare la realtà con l’ideologia, e di negare il valore di una pratica che, nel mondo contemporaneo, può essere parte della soluzione, non del problema.
Il tema è la sostenibilità
Infine, non va dimenticato che anche l’agricoltura, la prima rivoluzione “contro natura” dell’Homo sapiens uccide miliardi di animali selvatici ogni anno, tra impatti diretti (mietiture, pesticidi) e indiretti (perdita di habitat, inquinamento). Figuriamoci cosa avviene in alcuni allevamenti intensivi, sia in termini di sofferenza animale sia di impronta ecologica. Come si può evincere anche da Ragni (2015) la caccia, se ben regolata, può costituire una forma evoluta di “wildlife economy”, che riconnette l’uomo alla responsabilità delle proprie scelte ecologiche. Ogni boccone che mangiamo ha conseguenze ecologiche. Anche l’agricoltura uccide animali selvatici. La vera domanda non è se gli animali muoiano, ma come e perché.
L’unico discorso onesto da fare è dunque questo: tutte le nostre azioni hanno un impatto sugli ecosistemi. La vera discriminante è la loro sostenibilità. Inclusa, senza ipocrisie, quella della caccia, quando è gestita secondo principi scientifici, ecologici ed etici. Anche Laura Conti, medico, scienziata, partigiana e parlamentare del PCI, nel suo Discorso sulla caccia (1980) rifiutava ogni moralismo e ogni ideologia dell’innocenza. Con sorprendente lungimiranza, affermava:
La caccia può essere una pratica compatibile con la conservazione della natura, se regolata. Non è la caccia a distruggere l’ambiente, ma l’urbanizzazione selvaggia, l’agricoltura industriale, l’inquinamento.
E ancora:
È sbagliato fare dell’ecologismo una religione dell’innocenza: ogni attività umana ha impatti, persino coltivare un campo significa uccidere degli animali.
Una voce laica, progressista, profondamente scientifica. Esattamente ciò che manca oggi, quando di conservazione e fauna si chiede il parere a chiunque tranne che a zoologi, ecologi o tecnici di settore: gli unici che potrebbero parlare con competenza, dati alla mano.
* Giuliano Milana è zoologo PhD in Biologia animale, vicepresidente AIW (Associazione Italiana Wilderness)
Se sei interessato alla caccia sostenibile e alla conservazione dell'ambiente e della fauna selvatica, segui la pagina Facebook e l'account Instagram di Hunting Log, la rivista del cacciatore responsabile.