Attualmente, al primo focolaio individuato nell'alessandrino il 6 gennaio 2022 (172 cinghiali positivi al 19 luglio) si sono aggiunti quelli a nord di Roma (5 maggio, 44 cinghiali) e di Rieti (26 maggio, 1 cinghiale)
Attualmente, al primo focolaio individuato nell'alessandrino il 6 gennaio 2022 (172 cinghiali positivi al 19 luglio) si sono aggiunti quelli a nord di Roma (5 maggio, 44 cinghiali) e di Rieti (26 maggio, 1 cinghiale) - © Andrea Dal Pian
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di Matteo Brogi

Peste suina africana: parla il commissario straordinario

Dopo i primi tempi di grande apprensione e dei titoloni sui principali quotidiani nazionali, oggi di peste suina africana si parla poco. E se ne parla quasi esclusivamente tra addetti ai lavori, come se il problema fosse risolto. Così però non è e questo silenzio va attribuito all'assuefazione del grande pubblico e della stampa

Per affrontare la questione sulla base delle conoscenze attuali, ho intervistato Angelo Ferrari, il "Commissario straordinario con compiti di coordinamento e monitoraggio delle azioni e delle misure poste in essere per prevenire e contenere la diffusione della peste suina africana", incaricato con il decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri del 25 febbraio 2022. Direttore generale e direttore sanitario dell'Istituto zooprofilattico sperimentale del Piemonte, Liguria e Valle d'Aosta, è una figura di alto profilo: è stato tra l'altro docente universitario in Patologia veterinaria e ispezione degli alimenti di origine animale, in Farmacologia e tossicologia veterinaria e in Sicurezza alimentare. L'incarico conferito a Ferrari è a titolo gratuito e ha la durata di un anno (prorogabile), cosa che mette al riparo la sua azione dalle vicende politiche che hanno portato alle dimissioni del presidente del consiglio Mario Draghi.

La peste suina resta un argomento molto sensibile perché in Italia abbiamo 32.700 allevamenti, macelliamo 12.300.000 capi ogni anno e questo giro economico produce otto miliardi di euro di ricavi e 30.000 posti di lavoro solo nel settore dei salumi. La diffusione della malattia ha pertanto un impatto sia sulla su zootecnia e l'ambiente sia sotto l'aspetto economico sociale.

Ho già affrontato il tema con il mio articolo del 22 aprile. Da allora molte cose sono cambiate: al primo focolaio individuato nell'alessandrino (6 gennaio, 172 cinghiali positivi al 19 luglio) si sono aggiunti quelli a nord di Roma (5 maggio, 44 cinghiali) e di Rieti (26 maggio, 1 cinghiale). Intanto le opere di contenimento vanno avanti a un ritmo imprevedibile solo qualche mese fa e il sottosegretario di Stato al Ministero della salute, Andrea Costa (Alternativa popolare), ha proposto di estendere da tre a cinque mesi il periodo dedicato alle cacce collettive e ha descritto i cacciatori come «i nostri alleati» nella battaglia del contenimento del virus (19 maggio, nella trasmissione 24 Mattino su Radio24).

La presenza di tre focolai sul territorio nazionale è un elemento molto preoccupante. Come siamo messi a livello epidemiologico?

Nel focolaio ligure-piemontese – il più esteso – la malattia non è passata ai suini domestici; nell'area di Roma e del Grande raccordo anulare abbiamo purtroppo avuto casi di trasmissione ai suini domestici ma gli animali sono stati abbattuti e il focolaio sotto questo aspetto può dirsi soppresso; nella zona di Rieti registriamo un focolaio anomalo: riguarda una sola carcassa di cinghiale e nonostante le ricerche non ne sono state trovate altre. Si tratta di un'anomalia nell'anomalia che non ci permette di fare alcuna ipotesi se non suggerirci la necessità di un maggior controllo nell'area.

«Come abbiamo chiesto agli allevatori di abbattere i suini – dichiara Angelo Ferrari, commissario straordinario con compiti di coordinamento e monitoraggio delle azioni e delle misure poste in essere per prevenire e contenere la diffusione della peste suina africana – dobbiamo chiedere al mondo venatorio di creare attorno alle aree infette delimitate dalle barriere un vuoto sanitario»
«Come abbiamo chiesto agli allevatori di abbattere i suini – dichiara Angelo Ferrari, commissario straordinario con compiti di coordinamento e monitoraggio delle azioni e delle misure poste in essere per prevenire e contenere la diffusione della peste suina africana – dobbiamo chiedere al mondo venatorio di creare attorno alle aree infette delimitate dalle barriere un vuoto sanitario» - © Andrea Dal Pian

E sul tema del contenimento della diffusione?

L'Italia ha contato molto sul posizionamento delle barriere. Siamo stati particolarmente agevolati perché nei due casi più importanti abbiamo potuto utilizzare le barriere artificiali già presenti: quelle autostradali a nord e quelle del Grande raccordo anulare in centro Italia; sono state rinforzate (nel caso di Roma sono stati chiusi tutti i varchi e abbiamo attivato un'opera di monitoraggio perché vogliamo che la chiusura sia mantenuta nel tempo) così da limitare all'interno di una data area la zona infetta. In Piemonte e Liguria la malattia è uscita dall'area e abbiamo avuto la necessità di costruire ulteriori barriere con finalità differenti sia a est, nella zona di Arquata scrivia, sia a ovest, nella zona di Ovada.

Le barriere autostradali non permettono il passaggio perché nascono con lo scopo prevalente di salvaguardare il traffico, mentre l'anello di ulteriore contenimento ha la funzione di rallentare l'onda epidemica della malattia: non deve contenere ma far sì che la diffusione sia lenta, in maniera da garantire la possibilità di interventi di depopolamento (si tratta si un neologismo entrato nel linguaggio corrente proprio in riferimento alla riduzione della densità del cinghiale, ndr). Mentre all'interno della zona infetta non intendiamo per il momento depopolare (lasciamo che la malattia faccia il suo corso), fuori dalla barriera invitiamo a ridurre fortemente le densità.

Anche la caccia avrà un suo ruolo?

Attualmente la caccia collettiva è chiusa quindi l'intervento è affidato alla selezione, al controllo, all'uso delle gabbie. In un futuro prossimo dovremo capire come muoversi anche all'interno delle zone infette

Si dovrebbe comunque superare l'iniziale formulazione avanzata da alcuni per cui l'attività venatoria sarebbe stata il principale fattore di rischio di diffusione dell'infezione.

Credo che uno dei fattori principali di diffusione sia sempre l'uomo, in maniera diretta o indiretta, pertanto il movimento all'interno della zona infetta va condizionato; d'altronde non possiamo limitare la vita di intere aree (in cui operano non solo cacciatori ma pure trekker e agricoltori, per esempio): bisogna fare attenzione ma non bloccare la vita sociale ed economica. Penso però – e i salti della malattia cui assistiamo ce lo confermano – che tutti i focolai abbiano l'uomo come causa, soprattutto tramite gli alimenti infetti che l'uomo trasporta. È emblematico in questo senso il caso del Belgio, dove la malattia si è diffusa attraverso gli avanzi alimentari abbandonati dai soldati Nato di ritorno dalla Polonia. In Sardegna siamo stati bravissimi perché abbiamo esportato i prodotti ma quasi mai (si conta una sola eccezione) il genotipo 1 della psa fuori dai confini dell'isola.

Resta aperta la questione della riduzione delle densità, verso cui spingeva già il documento interministeriale di indirizzo tecnico "Gestione del cinghiale e peste suina africana – Elementi essenziali per la redazione di un piano di gestione".

Fondamentale è l'aspetto all'interno delle aree infette dove è previsto un piano di eradicazione di carattere sanitario che porta a creare velocemente un vuoto sanitario. Come abbiamo chiesto agli allevatori di abbattere i suini, dobbiamo chiedere al mondo venatorio di creare attorno alle aree infette delimitate dalla barriere un vuoto sanitario dei suini selvatici. Chiedo un forte aiuto affinché nelle aree limitrofe al posizionamento delle barriere si crei un depopolamento con andamento centripeto (quindi dall'esterno verso l'interno), per cui se un selvatico positivo dovesse attraversare la barriera – cosa peraltro possibile – non trova altri cinghiali cui trasmettere la malattia. Questa è la strategia.

Come ritiene che la comunità venatoria possa contribuire oggi e quali sono le sue previsioni per la prossima stagione venatoria e la caccia collettiva in genere?

L'attività del cacciatore è stata molto importante nella fase dell'early detection e per questo ringrazio il mondo venatorio. I cacciatori si sono adoperati in tutte le Regioni alla ricerca delle carcasse. Un'attività molto importante che non andrebbe dismessa.
Ritengo che si continuerà ad andare a caccia, forse in modo differente, più organico, probabilmente in modo migliore. Voglio pensare che la psa faccia migliorare il mondo venatorio, magari con qualche regola in più ma in maniera che la caccia possa diventare veramente un momento di attenzione verso la natura oltre che un momento "ludico".

Si tratta quindi di una grande responsabilità che, come cacciatori, continuiamo ad avere nei confronti della nostra passione, della natura e della società in genere. È insomma auspicabile che prevalga la collaborazione, che l'impegno nell'individuazione delle carcasse continui senza sosta e che non prevalgano – come ci insegna la politica nazionale – interessi di parte.

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